da “Napòlide” di Erri De Luca

Se Napoli è barocca, la mia vita e il corpo no, si sono arredati in altro stile: però il naso… che fiuta materiali inerti, di officine spente, il naso che presiede ai ricordi, quello è barocco. Cerca il cascame, il tanfo, lo smalto del consunto… Il naso sa un solo amore e comanda agli occhi.
Non si lacrima di cipolle perché irritano gli occhi, ma perché attaccano il naso: se non si respira, non si piange.
Mi fermo a questo, non vado e non vedo oltre la superficie, il tatto: quello che ci ha toccato, che poi è molto di quello che ci è toccato.
La pelle d’oca è una reazione di superficie. Napoli invece è una città di contropelo, di quelle che sfregano unghie sulla lavagna…
Ai suoi inquilini suscita sfoghi cutanei.
Chiunque scende a Napoli lo sa da prima che gli capiterà di essere toccato molte volte.
Da Napoli è stato bandito l’agio di muoversi. Il passante si inoltra nel labirinto cieco del tocco e del ritocco, dell’invadenza del prossimo suo presso se stesso. Struscio, scansamento, rinculo e percussione sono tecniche primarie del procedere. Vana è la simulazione della fretta, pantomima altrove efficace a farsi largo. La fretta qui è considerata la manifestazione di un disturbo nervoso. Si è parte di una vischiosità generale che non si può aggirare, in cui si districa meglio chi più sguscia sfruttando la spinta dei corpi altrui, anziché esercitarne una propria.
E, miracolosamente accade che, al punto di massimo intralcio si determina una fluidità che sospende in parte la gravità dei corpi, dotandoli di leggerezza e oleodinamicità.
Come l’effetto che si manifesta nella vasca dei capitoni. Un tempo… eh…
Un tempo si era popolo fitto. Tutto lo smaniare di mosse sotto le parole serviva a spingere la voce in mezzo agli altri, a farle spazio e ascolto.
I gesti salivano dal termitaio, dovevano dar forza al dialetto, alla stenografia di insulti, affari, avvisi, esclamazioni, guai…
Una promiscuità preziosa che ancora esiste dove la città è più densa!
Toccare, parlare, mai lasciare inerte il corpo: è la terapia per i casi di coma. A Napoli è premura che i cittadini gratuitamente si dispensano l’un l’altro.
E non che può fare del bene, non morale ma sanitario, l’infanzia trascorsa in una città di rianimazione!
Con quella vita impestata, invincibile, da far diventare buono a ogni mestiere… Da bambini, per strada, già tutti sanno tutto quello che c’è da fare, campare, giocare, scansare, prendere schiaffi, colpire al volo… Tutti esperti, niente li può sorprendere, nisciuno è fesso né per ingenuità né per difetto. I fessi sono morti da piccoli.
È come se nella città ci fosse un albero della conoscenza del bene e del male. Un albero che non è stato proibito, perciò tutti ne hanno mangiato.

Napoli mi ha addestrato agli altri e mi ha addestrato i sensi!
E mi ha insegnato a scrivere senza silenzio intorno perché vengo da un fitto di umanità di una città stracolma: né uscio né finestra sbarrata salvava dalla zuppa sonora di liti, pranzi, sciacquoni, feste, lutti e insonnie altrui. Non ci si poteva opporre, tapparsi gli organi: la densità tracimava…
Con quel dialetto che è lingua da asfissiati, breve per consumare meno aria. Quel dialetto è come lo sport: deve essere appreso in prima età.
Contiene destrezze muscolari, abilità, passi e scorciatoie inammissibili fuori del campo. Lo uso per consuetudine con mia madre…
Gli ebrei d’oriente chiamano lo yiddish mamelòshn, lingua di mamma.
Chi ha smesso di usare il dialetto è uno che ha rinunciato all’intimità col proprio mondo e ha stabilito distanze.
Ne ho marcate molte anch’io, ma conservo per mia salvezza un resto di quegli affondi bruschi di senso e di contatto che sono possibili solo in mamelòshn, il napoletano per me.
Ma la vera differenza tra tutti gli altri e noi sta nel maneggiare gli ordini. Da noi gli ordini si stemperano in richieste. Pure quelli delle divinità da noi sono considerati inviti!
Gli altri sono abituati a mettere molto zelo nel tradurre in pratica ordini a volte generici. I napoletani applicano l’intelligenza a incepparli gli ordini, ad aggirare le procedure. Da noi un comando va somministrato con discrezione… dev’essere un invito; solo così suscita un sentimento di collaborazione e ottiene una risposta.
Forse perché Napoli è stata corpo lavorato dai popoli, dal sottosuolo, provato e riprovato e scoperto più grande dalla prova. La sua pazienza è frutto di un vulcano che è lì per sprofondarla di ceneri.
Pacienza… pacienza…
Pacienza: è parola che qui da noi mette insieme la voce «patire» con quella del darsi pace; virtù del sistema nervoso capace di reggere vite impossibili. Non è rassegnazione, ma il più alto stato civile dell’esperienza.
Pacienza a occhi asciutti… Pacienza di vivere accussì che non è solo «così», ma un andarci incontro e addosso al «così», di vivere «al così», per attaccamento al luogo.
Chi parte o muore ha perso la pacienza e l’accussì.
Per chi c’è nato, Napoli è una costola.
E chi perde questo luogo è per forza disorientato.
Perciò si torna sempre in questa città stremata e tremata!
Non per soccorso, non per richiamo della patria crollata, ma per amore… perché le città coincidono con un amore…
Si è cittadini per virtù di abbracci e io lo sono stato!