In fondo alla foresta di… Sanremo

Che cosa è successo in poco meno di un anno?!
Poco meno di un anno fa “condivideste” esageratamente sui vostri profili, a bocche aperte e lacrime spalancate, il monologo di Favino a Sanremo! Certo, la cornice canterina, certo la bravura di Favino… Eppure Koltès esisteva sulla carta già da 40 anni in quella sua Notte poco prima della foresta! Ed anche allora, quella sera, il direttore artistico del festival era Baglioni. Lo stesso Baglioni dell’altro giorno.
Solo che stavolta, ancor prima di iniziare, la canèa si è scatenata per inseguire la preda che il capitano – pardon – il generale di Koltès, ha indicato loro!
E allora lo ripropongo il monologo di Favino/Koltès… perché ancora “voglio urlare, voglio poter urlare, anche se poi mi sparano addosso”!

Bisognerebbe stare dall’altra parte senza nessuno intorno, amico mio, quando mi viene di dirti quello che ti devo dire; stare bene tipo sdraiati sull’erba, una cosa che uno non si deve più muovere, con l’ombra degli alberi. Allora ti direi: “qua ci sto bene, qua è casa mia, mi sdraio e ti saluto”. Ma qua, amico mio, è impossibile!
Mai visto un posto dove ti lasciano in pace e ti salutano.
Ti dobbiamo mandare via, ti dicono, leva il culo da là… E tu fai la valigia. Il lavoro sta da un’altra parte, sempre da un’altra parte, che te lo devi andare a cercare; non c’è il tempo per sdraiarsi e per lasciarsi andare, non c’è il tempo per spiegarsi e dirsi “ti saluto”.
A calci in culo ti manderebbero via!
Se vuoi lavorare, ti devi spostare, mai che puoi dire “questa è casa mia e ti saluto”.
Tanto che io quando lascio un posto ho sempre l’impressione che quello sarà casa mia, sempre di più di quello in cui vado a stare. Perché là dove te ne vai sei sempre più straniero, sempre meno a casa tua. E quando ti prendono a calci in culo e tu te ne vai di nuovo, quando ti giri a guardarti indietro, amico, è sempre il deserto.
Fermiamoci una buona volta e diciamo “Andate a fanculo, io non mi sposto più, voi mi dovete stare a sentire”. Ci sdraiamo una buona volta sull’erba e ci prendiamo tutto il tempo che tu racconti la tua storia, che ci diciamo che siamo tutti più o meno stranieri, ma che adesso basta, stiamo a sentire, tranquilli, tutto quello che ci dobbiamo dire.
Allora sì che capisci che a loro non gliene frega un cazzo di noi.
Io mi sono fermato, ho ascoltato e mi sono detto: “Io non lavoro più finché non ve ne frega un cazzo di me”.
Quando ho lavorato ancora, ho parlato a tutti quelli presi a calci in culo che sbarcano qua per trovare lavoro e loro mi sono stati a sentire. E io sono stato a sentire quelli di là che mi hanno spiegato com’è da loro.
Laggiù c’è un generale, che sta tutto il giorno e tutta la notta al bordo di una foresta, gli portano da mangiare perché non si deve spostare e spara su tutto quello che si muove e gli portano le munizioni quando non ce ne ha più. Un generale coi suoi soldati che circondano la foresta; tutto quello che si muove diventa un bersaglio; tutto quello che compare al bordo della foresta; tutto quello che notano che non c’ha lo stesso colore degli alberi e che non si muove allo stesso modo.
Io sono stato a sentire tutto questo e mi sono detto che da tutte le parti è la stessa cosa.
Più mi faccio prendere a calci in culo e più sarò straniero.
Loro finiscono qua e io finirò laggiù, laggiù dove tutto quello che si muove sta nascosto nelle montagne. Allora mi sono detto: “Io non mi muovo più, se non c’è lavoro, non lavoro”.
Se il lavoro mi deve far diventare matto e mi devono prendere a calci in culo, io non lavoro più.
Io voglio sdraiarmi, una buona volta, voglio spiegarmi, voglio l’erba, l’ombra degli alberi, voglio urlare, voglio poter urlare, anche se poi mi sparano addosso.
Tanto è quello che fanno. Se non sei d’accordo, se apri la bocca, ti devi nascondere in fondo alla foresta. Ma allora meglio così, almeno ti avrò detto quello che ti devo dire.