Fazzoletto rosso… cioè, no!

A parte questa cosa della dichiarazione, è che mi è saltata l’adolescenza! Me la sono bruciata per… per uno strano caso del destino, come si dice.
A dieci-undici anni mi trovai a frequentare un gruppo di persone tutte più grandi di me: alcune di qualche anno (che però sembravano tanti di più), altri di almeno 5-6 anni, (che erano davvero tanti di più!).
Agli inizi degli anni ’70 quei gruppi di azione cattolica, avevano un ruolo determinante e praticamente unico in un paese di provincia come il nostro. Ci permisero inconsapevolmente di assumere uno “spessore” morale e politico che altrimenti non avremmo neanche saputo di avere… e che ci ha segnato per tutta la vita.
A dieci anni misi alle spalle un bel po’ di partitelle di pallone su campi improvvisati ovunque ci fosse qualche metro di spazio sufficiente, e mi buttai a capofitto in questa avventura che sarebbe durata più o meno un decennio!
Ripensando a quel periodo un’immagine mi viene in mente per fotografare quello che sto cercando di dire a parziale giustificazione di quella che potrebbe apparire sociologia spicciola.
Era il 1971, c’era già stata la notte di Italia-Germania 4 a 3 che identifico come il mio atto di nascita da “grande”, e per la prima volta nella mia città gli studenti scioperavano. Lo fecero anche quelli della scuola media che avevo cominciato a frequentare. Solo quelli di terza però: ragazzi per lo più ripetenti, figli di un proletariato e sottoproletariato di periferia di un Italia di provincia. Anche i compagni con i quali avevo cominciato a vedermi tutti i giorni, tutti di terza, scioperarono. Per emulazione convinsi quattro o cinque della mia classe a restare fuori dalla scuola anche noi quella mattina.
Eravamo davanti al portone d’ingresso quando arrivò il Preside. Il Preside, allora, era raramente visibile agli studenti. Se ti dicevano “ti mando dal Preside” la preoccupazione era quella di entrare in questa stanza semibuia, con la poltrona in pelle dallo schienale altissimo, coi busti di chissà chi accostati alle pareti… insomma il trauma era quello più che altro!
Già il fatto che non era potuto entrare nel cortile della scuola con la macchina – ed era l’unico a poterlo fare – lo aveva inferocito. Quando poi, passando in mezzo a noi qualcuno accennò a fischiare, divenne paonazzo. Varcò il portone e diede ordine al custode di chiuderlo alle sue spalle. Ma dopo un attimo il portone si riaprì. Lui riuscì e si avvicinò a noi quattro o cinque più piccoli che stavamo davanti agli altri. Chiese perché scioperassimo. Scioperavamo perché quella era la stagione degli scioperi, nelle fabbriche e nelle scuole italiane. Naturalmente avevamo caratterizzato la nostra protesta contro i disservizi della nostra scuola: le solite cose. Tra l’altro gli dissi dei banchi che al mattino trovavamo sempre sporchi.
Lui, senza scomporsi, tirò fuori dal taschino della giacca il suo bel fazzoletto bianco e me lo porse: “pulisca il suo banco”, disse! Senza pensarci tirai fuori dalla tasca il fazzoletto a righe blu che mamma ogni mattina mi preparava accanto ai libri, nella mensola dell’ingresso, e gli dissi più o meno che, se un fazzoletto era necessario usare, potevo benissimo usare il mio!
Era stata una cosa davvero istintiva. Ma evidentemente per quelli che avevano assistito non fu così. Il Preside fu considerato un provocatore ed io una specie di capo-popolo. I grandi spinsero il portone e corremmo dentro al grido di “occupazione!”.
Fu così che la mia “fama” crebbe più dei miei reali meriti, da quel giorno.

Al bar si muore | Gianni Morandi | 1970

“Da quel momento sempre dalla parte degli indiani” (Carmine Califano)

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